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Sostenibilità e digitalizzazione, ancora molta strada da fare. Ma ci sono le risorse

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Al Forum della Pa, chiuso a Roma da pochi giorni, la sostenibilità calata nelle scelte strategiche e quotidiane della Pubblica amministrazione, è stata la vera protagonista.

In particolare un processo di digitalizzazione spinto e infiltrato in ogni aspetto della gestione della cosa pubblica potrebbe portare, secondo gli esperti del settore, ad un recupero di performance e ad una migliore gestione delle risorse.

«Ci sono tre aspetti, in questo concetto di sostenibilità, che è necessario risolvere e rispetto ai quali il digitale può svolgere un ruolo chiave – afferma Andrea Rangone, CEO di Digital360 – a partire dal deficit e dal debito di lungo termine che gravano sui conti del Paese, passando dalla produttività e dalla propensione all’imprenditorialità degli italiani».

Soltanto per portare qualche esempio, il processo di digitalizzazione potrebbe da una parte aumentare le entrate dello stato: i pagamenti digitali, tracciabili ed efficaci, vanno ad incidere su una fetta di nero che ancora sfugge ai controlli. Queste maggiori entrate fiscali sono state conteggiate in 15 miliardi di euro all’anno. Allo stesso modo l’e-procurement e la dematerializzazione documentale (con connesso risparmio di carta) potrebbero contribuire a risparmiare risorse e ridurre fortemente le spese di approvvigionamento.

L’indagine di FPA “Pratiche di consumo sostenibile a lavoro”, mette in evidenza come l’Italia sia molto distante dai 17 sustainable development goal individuati dall’Onu.

La situazione fotografata dal Ministero dell’Ambiente nella Strategia Nazionale per lo sviluppo sostenibile riporta una tendenza di peggioramento che riguarda tra gli altri: l’efficienza idrica e quella energetica, la salvaguardia del patrimonio naturale, lo spreco e l’insostenibilità dei consumi. Obiettivi sui quali l’Italia è non solo molto distante dagli risultati che si è impegnata a conseguire a livello internazionale, ma presenta fattori di peggioramento. La buona notizie è che le risorse per invertire questa tendenza ci sono: solo guardando agli 11 obiettivi tematici dei Fondi Strutturali e di Investimento Europei per il periodo di programmazione 2014-2020 contiamo una disponibilità di 73.624.430.700 euro da spendere in azione funzionali allo sviluppo sostenibile del Paese. Un numero di risorse significative di cui però, a metà periodo di programmazione, abbiamo speso solo 1,2%.

Risulta quindi evidente che il mancato conseguimento di molti dei risultati attesi è da imputarsi anche ad una scarsa capacità di progettare politiche di sostenibilità, di mettere in pratica best practices per raggiungere i 17 sustainable development goals individuati dall’Onu.

In questo contesto la PA con i suoi numeri, le sue funzioni e la sua capacità di spesa potrebbe giocare un ruolo di grande importanza. La ricerca afferma infatti che se tutti i dipendenti acquisissero comportamenti di consumo responsabile si otterrebbe una riduzione dal 5 al 15% della spesa della PA in bolletta. Se ciascuno degli oltre 3 milioni di dipendenti pubblici evitasse di consumare 500 fogli, si ridurrebbe il consumo di 8142 tonnellate di carta, evitando di abbattere 122 mila alberi, risparmiando oltre 3,5 miliardi di litri di acqua, abbassando il consumo energetico nazionale di 62 milioni di Kwh. Incentivando il carpooling con almeno un collega, diventerebbero 750 mila le auto circolanti ogni giorno (ora sono 1,3 milioni), eliminando 376 tonnellate di CO2 e risparmiando 230 milioni di euro solo per il carburante.

Insomma, se la rivoluzione dei consumi e delle modalità di produzione sostenibili partisse dalla Pubblica Amministrazione, si avvierebbe una vera rivoluzione “green” in Italia, perché le PA potrebbero fare da apripista su mobilità soft, risparmio energetico, raccolta differenziata dei rifiuti, lotta agli sprechi, acquisto di alimenti biologici con un impatto formidabile sull’intero Paese. Con una spesa pubblica pari a quasi il 17% del PIL nazionale, infatti, la PA è il più rilevante dei consumatori e i suoi dipendenti possono aiutare il paese a operare un profondo salto culturale. E se la sostenibilità degli uffici pubblici è ancora insufficiente – nel giudizio degli stessi dipendenti – cresce la consapevolezza dell’importanza di pratiche di consumo sostenibile.

Eppure rispetto al green procurement l’Italia vanta un primato addirittura europeo: siamo infatti il primo paese ad aver introdotto nel nostro codice degli appalti l’obbligatorietà dei CAM (criteri ambientali minimi) per modulare la richiesta delle stazioni appaltanti e selezionare sul mercato fornitori attenti alla sostenibilità economica ed ambientale.

 


Facciamo in modo che Apple e Walmart mantengano le grandi promesse ambientali

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Fred Pearce

Chiamiamole promesse quasi irrealiazzabili, questi arditi obiettivi di sostenibilità che magari ci lasciano dubbiosi.

Apple riuscirà davvero ad tagliare la dipendenza dalle attività di estrazione per approvvigionarsi dei metalli utilizzati nei propri prodotti, un obiettivo annunciato  ad aprile?

E il progetto Walmart  Project Gigaton che mira ad eliminare un miliardo di tonnellate di CO2 dalla propria supply chain entro il 2030, non è un sogno impossibile?

E a chi la vuole contare Unilever – uno dei maggiori venditori di prodotti contenenti olio di palma – quando dice che entro il 2020 non sarà più un motore di deforestazione netta?

É facile essere cinici. Apple ammette che non sa ancora come tagliare il cordone ombelicale dell’estrazione dei metalli. E con l’avvicinarsi del 2020, l’AD di Unilever Paul Polman fa continue precisazioni riguardo alla promessa sulla deforestazione .

Quanto a Walmart, dato che la maggior parte delle emissioni nella supply chain provengono dagli agricoltori e produttori, l’obiettivo climatico dichiarato – che equivale ad eliminare le emissioni annue della Germania – significa soprattutto mettere pressione su questi operatori.

Una visione del futuro

Eppure tutti abbiamo bisogno di una stella che ci guidi. L’aspirazione è una buona cosa anche quando il percorso non è del tutto chiaro.

La possibilità di raggiungere questi obiettivi sarà facilitata dal fatto che molte mega-tendenze globali muovono già nella stessa direzione. I tre quarti dell’alluminio del mondo è già riciclato, quindi la promessa fatta da Apple di arrivare al 100% nelle proprie attività non è così improbabile.

E negli ultimi tre anni, l’economia globale è cresciuta del 9% senza un aumento delle emissioni di CO2. Nel 2015 gli investimenti mondiali nelle fonti rinnovabili erano il doppio  rispetto a quelli nella generazione di energia nuova da carbone e gas.

Le grandi corporation sono vere forze motrici oppure stanno seguendo la moda? Alcune di loro hanno almeno una visione di un nuovo futuro di energia a basso contenuto di CO2, di agricoltura efficiente nell’utilizzo delle risorse e di processi di riciclaggio a circuito chiuso delle risorse.

Ford si propone di tagliare il consumo di acqua nella produzione automobilistica del 72% entro il 2020, senza effetti negativi per la redditività grazie all’adozione di tecnologie risparmiatrici dell’acqua, ad esempio nella verniciatura. H&M dice  di aver tagliato le emissioni CO2 dei propri 4.300 negozi del 47% in soli 12 mesi. Apple sostiene  di ottenere il 96% del fabbisogno energetico da fonti rinnovabili.

Se Walmart replicasse la realizzazione di Apple, l’obiettivo di una gigatonnellata sarebbe fattibile, poiché, dice Elizabeth Sturcken dell’Environmental Defense Fund negli Usa: «Nella supply chain del settore retail americano, l’energia elettrica è la principale attività che crea emissioni».

H&M riuscirà ad essere “climate positive” entro il 2040 come promette? Sì. Grazie ai risparmi energetici, all’energia rinnovabile e a misure di compensazione (protezione delle foreste ad esempio) potrebbe addirittura arrivare ad essere un emittente negativo di emissioni.

Troppa PR superficiale

Se le imprese vorranno mantenere le promesse, due cose sono importanti. Innanzitutto devono credere davvero che sia necessario modificare il proprio business model per il successo nel futuro, dando la priorità al riciclaggio e alla riduzione del consumo di risorse, oltre che agli utili.

Poi, gli attivisti dovranno mantenere la pressione sugli amministratori perché vadano avanti nelle strategie annunciate, in modo che i consumatori e gli azionisti possano fare scelte consapevoli.

Fonte: https://www.theguardian.com/sustainable-biù usiness/2017/may/15/apple-walmart-environment-sustainability-targets

Materiali del futuro, dall’olio esausto al grefene

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Il grafene, materiale costituito da uno strato monoatomico di atomi di carbonio (avente cioè uno spessore equivalente alle dimensioni di un solo atomo) e con la resistenza meccanica del diamante e la flessibilità della plastica, si può produrre con l’olio esausto.

È quanto è stato scoperto da un pool di ricercatori australiani della Commonwealth Scientific And Industrial Research Organization. Il procedimento, chiamato GraphAir è piuttosto semplice: l’olio di soia viene riscaldato in un forno tubolare per una mezz’ora, cioè fino a quando non si decompone in piccoli blocchi di carbonio, e poi raffreddato velocemente su un foglio di nichel. In questo modo i blocchi di carbonio si ricompongono in rettangoli di grafene sottilissimi. Il processo abbatte di molto il costo di produzione del materiale ed è anche una soluzione sostenibile per riciclare oli esausti.

Ed anche se al momento il processo porta alla produzione di una lamina di grafene della grandezza di una carta di credito, quindi non adatta ad usi commerciali ed industriali, gli sviluppi futuri sono assai incoraggianti.

Il grafene mostra delle ottime caratteristiche come conduttore, ed è oggetto di intensi programmi di studio al fine di utilizzarlo per la realizzazione di sistemi a semiconduttori.

Trova massiccio impiego nella progettazione e costruzione di transistor di ultima generazione e nella produzione di nanocompositi polimerici, ottenuti incorporando grafene (come nano-carica) nella matrice polimerica di base.

Il silicene invece, allotropo bidimensionale del silicio con una struttura esagonale simile a quella del grafene, è più recente e la sua esistenza come materiale è stata definitivamente dimostrata da un team di fisici dell’Università Tor Vergata di Roma, che è riuscito a sintetizzarlo depositando in condizioni di ultra vuoto monostrati di silicio su superfici di grafite cristallina ed evitando ogni possibile lega con il substrato.

Queste nuove prove sperimen tali sono un passo in avanti significativo per la ricerca e lo sviluppo di nuovi materiali microscopici in gradi di venir applicati nella costruzione di celle solari ad alta efficienza, transistor ultra veloci e rilevatori di gas inquinanti. Il silicene, ed il grafene, sono due ottimi candidati.

La Directa Plus, leader di mercato italiana nella produzione di grafene, recentemente quotata anche alle borsa londinese, potrebbe persino pensarci.

Fonte: Il progettista industriale, Aprile 2017, p.14 “Che ci faccio con l’olio fritto? Il grafene!”

ReTuna Recycling Gallery, un nuovo modello di centro commerciale.

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Arriva dalla Svezia una nuova idea per il riciclo a e la lotta allo spreco: un intero centro commerciale dedicato ai beni riciclati , il ReTuna Recycling Gallery di Eskiltuna, una ventina di chilometri da Stoccolma.

Inaugurato nell’agosto del 2015, ospita ben 14 negozi del riuso e un ristorante biologico rigorosamente a km zero. Al suo interno si possono trovare decine di generi diversi, dai vestiti, ai mobili, alle apparecchiature elettroniche, tutto quanto possa essere recuperato e riutilizzato.

Ribaltando l’idea del centro commerciale come cattedrale dello spreco e del consumismo, questa idea che viene dal freddo dimostra che tutto può diventare sostenibile, se alla base vi è un’idea.

Il ReTuna Recycling Gallery ha al suo interno un’area in cui i clienti possono lasciare ciò di cui desiderano disfarsi; il tutto poi viene controllato, ripulito e aggiustato dagli appositi addetti per far sì che possa essere rivenduto.

Il centro punta a rendere attivi in primi persona i cittadini, favorendo un’educazione al recupero anche grazie ai numerosi corsi di “progettazione, riciclo e riuso” che si tengono annualmente, lezioni per imparare e migliorare le tecniche del fai-da-te.

Dai Restart party londinesi torinesi, al mall svedese del riciclo scorre una medesima idea: allungare la vita degli oggetti, opponendosi ad un’obsoloscenza programmata che riempie il mondo di rifiuti.

Anche l’Unione Europea ha adottato questo tipo di visione, approvando il pacchetto di leggi sull’economia circolare.

In Italia un’esperienza simile la conduce Mercatino, con la sua rete ramificata e le recenti iniziative volte a contabilizzare il risparmio di inquinanti generato dall’acquisto di un bene usato.

Favini scrive la parola “sostenibile” su carta di alghe e cuoio.

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Era il 1736 quando la Repubblica Serenissima di Venezia concesse l’autorizzazione a trasformare un mulino di Rossano Veneto in uno stabilimento per la produzione di carta.

La famiglia Favini entrerà in campo nel 1906 acquistando lo stabilimento di Rossano Veneto.

Ma sarà poi nel 1991 che, su richiesta del Magistrato delle Acque di Venezia, Favini darà inizio ad un percorso di sostenibilità che continua ancora oggi. Erano i giorni in cui le alghe e le mucillaggini infestavano la laguna e le coste dell’Adriatico da Venezia al Conero.

Le presenza degli infestanti era causata principalmente dalla forte presenza di inquinanti derivanti dall’agricoltura nelle acque della laguna. Le autorità dragarono la laguna e si ritrovarono con decine di tonnellate di alghe da gestire e da stoccare in discarica. Fu quindi chiesto ad alcune aziende di vari settori di provare ad ipotizzare un utilizzo industriale delle alghe.

Favini, brevettando un sistema di essiccazione e micronizzazione delle alghe, riuscì a produrre la prima Carta Alga, una carta con caratteristiche di lavorazione e stampabilità del tutto assimilabili alle normali carte di cellulosa da albero, ma che a differenza di queste ne contiene dal 5%  al 25% in meno. Calcolando che l’azienda negli ultimi vent’anni ha venduto circa 15mila tonnellate di carta è facile capire che gli alberi salvati sono stati migliaia.

Cosa cambiò col tempo?

«Negli anni crebbe senza dubbio la consapevolezza dei consumatori verso la sostenibilità. Dall’Alga Carta arrivammo quindi al Crush, una carta prodotta con scarti di produzione del comparto agro alimentare: dal pergamino del caffè, alla buccia di mandorla, alla sansa deoleata di oliva alla buccia di arancia. Anche in questi casi la carta presentava caratteristiche di stampabilità e funzionalità del tutto simili alla carta normale, ma come per Alga Carta il consumo di cellulosa di albero era ridotto significativamente. La richiesta di questo tipo di prodotto da parte della GDO aumentò molto, segno che anche i consumatori avevano acquisito maggiore consapevolezza e sensibilità sulla sostenibilità».

Ed arriviamo infine alla nuova linea: Remake.

«In questo caso lo stimolo ci arrivò dal mondo della moda. I grandi marchi, ci chiesero una carta, per i loro packaging, che fosse maggiormente in linea con la loro filiera. Per questo iniziammo a sperimentare la produzione di un tipo di carta sviluppata sugli scarti di filiera della moda. Remake nasce dalle fibre di collagene del cuoio. Un materiale straordinario. Noi operiamo una selezione all’origine, selezionando esclusivamente cuoio conciato in modo vegetale e di origine italiana. In questo modo escludiamo la presenza di cromo nella nostra carta, un contaminante pericoloso per la salute».

Che usi si fanno di questa carta?

«Come per le nostre precedenti linee la carta presenta caratteristiche simili a quella da cellulosa da albero. Il 25% di fibre di cuoio che aggiungiamo all’impasto dà una carta più leggera e voluminosa. Questo consente un risparmio notevole sulla grammatura e sul peso della carta stessa. In sostanza usiamo meno alberi, e riusiamo creativamente (up-cycling) sottoprodotti di altre filiere industriali».

 

Piemunto, come rispondere alla crisi del latte

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Il latte attraversa forse il suo periodo di maggior crisi di consumi.

Crisi che ha coinvolto allevatori, trasformatori e rivenditori. E che parte da lontano, procedendo parallela con una maggior consapevolezza ed informazione da parte dei consumatori, con il mutare delle mode alimentari che hanno visto negli ultimi anni sostenere il consumo di bevande alternative di origine vegetale: gli ormai “ex” latte di sosia, riso, avena etc etc.

Proprio per restituire fiducia ai consumatori sulla genuinità del prodotto latte e sostenere un comparto alimentare che ormai produce ben più di quanto riesca a vendere: oltre 25mila quintali al giorno, è nato l’anno scorso Piemunto, iniziativa di comunicazione dell’assessorato all’agricoltura della Regione Piemonte, che valorizza il latte di filiera.

La sovrapproduzione ha generato uno squilibrio tra domanda e offerta: il prezzo del latte è in continua diminuzione, arrivando oggi a 29,38 centesimi al litro a fronte dei 36,09 centesimi dello scorso anno, quando già si stavano manifestando le prime difficoltà del comparto.

Piemunto valorizza prodotti di filiera corta, latte, latticini e trasformati: i consumatori potranno, all’interno dei locali della GDO, effettuare una scelta consapevole acquistando prodotti esclusivamente piemontesi identificati con il marchio. Il progetto piemontese ha conquistato diverse insegne nel corso degli ultimi 12 mesi: dal Carrefour al Bennet, fino ad arrivare alla Coop, che nel mese di giugno ha presentato la sua adesione al protocollo con un confronto tra gli addetti ai lavori dedicato al tema presso il centro Fiorfood Coop in Galleria San Federico a Torino.

Fra gli aderenti al progetto vi è anche Centrale del latte di Alessandria ed Asti.

Come raccontano le etichette, il latte della Centrale del Latte di Alessandria e Asti è il prodotto della cooperazione tra diverse famiglie di allevatori esclusivamente piemontesi: una filiera corta, che è garanzia di qualità e genuinità.

È sufficiente pensare che la Centrale è il primo esempio di filiera certificata da enti esterni per la produzione di latte alimentare. Nel 1999 l’azienda ha firmato un accordo con le aziende produttrici di latte e con le organizzazioni di categoria che le rappresentavano, proprio per garantire il rispetto delle norme previste per la produzione di “Latte Alta Qualità” e migliorare ulteriormente le pratiche di allevamento.

Oggi questo disciplinare è ancora valido e il suo rispetto, assicurato da rigidi controlli, costituisce la garanzia di qualità e bontà del latte della Centrale di Alessandria e Asti che da oggi sarà possibile trovare anche con il marchio Piemunto.

La sostenibile leggerezza della birra

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Anche il mondo della birra si incammina sulla strada della sostenibilità. Ed alcune notizie, sorprendentemente positive, arrivano dal Belpaese, dimostrando ancora una volta che l’attenzione degli italiani verso il tema della sostenibilità e dell’ambiente cresce ogni giorno.

Via con il primo sorso.

Arriva da Sasso Pirano, frazione di Castelnuovo Val di Cecina, la prima birra al mondo prodotta da un birrificio alimentato in maniera totalmente geotermica. Gli impianti di riscaldamento dell’acqua e ammostamento sono infatti alimentati dal vapore geotermico della vicina centrale Enel Green. Tramite uno scambiatore di calore si ottiene tutta l’energia necessaria alle varie fasi del processo di produzione, comprese quelle di lavaggio e sanificazione dell’impianto. (fonte: La Nazione)

Dai 28 ettari di orzo e luppolo biologici coltivati ad Ostiglia ed impiantati su iniziativa dell’ex top manager Enzo Agazzani, arriverà (sono in attesa delle ultime certificazioni ed autorizzazioni) la birra Agazzani. Afferma il manager: «Ho fatto analizzare tante birre che si trovano sul mercato, comprese quelle cosiddette “artigianali”. In tutte ci sono residui di erbicidi, pesticidi, sostanze nocive per la salute. Invece la birra è una sorta di “pane liquido” dalle proprietà straordinarie. Ma per preservarle la mia sarà tutta a chilometro zero».  La salubrità del prodotto è certificata dal CERB, Centro Eccellenza Ricerca Birra. (fonte: Gazzetta di Mantova).

Nella golosa Bologna invece, al fresco dei portici che disegnano il centro storico, si potrà gustare la Cerqua, prodotta nel brewery pub omonimo. Una capacità produttiva di 1500 litri al mese, 4 differenti tipologie e, soprattutto, la prima birra d’asporto italiana. Servita solo alla spina, per abbattere spese e inquinamento relativo a packaging e trasporto, potrà venir imbottigliata nelle bottiglie che ci portiamo dietro. Prodotta in loco ed infustata in contenitori totalmente riciclabili, darà vita anche ad un’interessante esperimento di economia circolare: dal malto esausto risultante dalla lavorazione verrà prodotta una focaccia lievitata con pasta madre e servita ai clienti del pub. Persino gli arredi del pub rispettano la regola aurea delle 3 R: Reduce, Reuse, Recycle.(fonte: Corriere di Bologna).

 

La birra degli altri

A Portland, USA, il Migration Brewing Company abbatte del 50% le sue emissioni di gas serra grazie a prodotti a km zero che riducono spese di trasporto e inquinanti. Hanno installato un sistema di riscaldamento acqua a basso consumo ed alta efficienza. Per comprendere esattamente quante emissioni di CO2 venivano generate dalla produzione delle rosse tradizionali, la consulente Molly Hatfield del Centro di Ricerche sulla Sostenibilità Hatfield ha realizzato quella che viene chiamata valutazione del ciclo di vita.

Ha calcolato le emissioni di anidride carbonica generate nel corso della “vita” della birra: ha incluso la crescita (coltivazione) degli ingredienti, il trasporto alla birreria, la produzione della birra, il packaging e la distribuzione ai consumatori.

Si è così scoperto che la produzione di un barilotto di Migration’s Blood, Sweat e Red crea circa 56 kg di biossido di carbonio, l’equivalente di un’automobile media che viaggi per oltre 200 chilometri. Una pinta equivale a guidare, nella produzione di CO2, per poco più di un chilometro e mezzo su un’utilitaria.

L’80 per cento delle emissioni di anidride carbonica derivanti dalla birra proviene dal processo produttivo, in gran parte dall’uso di energia. Circa il 15 per cento, invece, deriva dalle operazioni che servono per far crescere le materie prime e trasportarle.

Ben venga quindi il nuovo sistema di produzione della Migration che riduce le emissioni del 50%. (fonte: Ambiente Bio)

 

Heineken, uno dei giganti mondiali della bevanda luppolata, che solo in Italia produce oltre 5 milioni di ettolitri nei suoi 4 stabilimenti, dando lavoro ad oltre 2mila persone, ha presentato il suo bilancio di stabilità: consumo di acqua ridotto del 15%, energia da pannelli fotovoltaici (oltre 8136, per una superficie pari a 4 campi da calcio) su 2 dei 4 stabilimenti. Ha inoltre privilegiato l’utilizzo della rotaia per i trasporti: nel 2012 il 30% delle bionde ha viaggiato su ferro. (fonte: Lifegate)

 

Il ResponsiBEERty 2016 di Carlsberg 2016 si pone invece 4 traguardi per il 2030: abbattere a zero lo spreco di acqua, a zero le emissioni e lo spreco di energia, a zero gli incidenti sul lavoro ed il consumo non responsabile di alcolici. E già da quest’anno Carlsberg intende servirsi di fonti energetiche al 100% rinnovabili. Mentre Carlsberg Italia ha ridotto il consumo di acqua del 18% nel 2016. Inoltre, reintroducendo il pet, più leggero e sostenibile dell’acciaio, Carlsberg ha evitato l’immissione di 11 milioni di chilogrammi di Co2.

(Fonte: Lifegate)

 

 

 

#LoSapeviChe? Quarta puntata

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#LoSapeviChe il Politecnico di Torino ha una squadra interna dedicata allo sviluppo di progetti e pratiche di sostenibilità ambientale?

Ne abbiamo parlato con i membri del Green Team.

Buona visione!


Cocoon, la ciambella che aiuta la riforestazione e costa come una pizza

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Nel 1985 il regista Ron Howard, il Richie Cunningham di Happy Days per intenderci, girava Cocoon.

Un film di fantascienza in cui alcuni alieni del pianeta Antarea tornavano sulla Terra a recuperare i bozzoli in cui, migliaia di anni prima, avevano racchiuso i corpi di alcuni loro compagni, così fortunatamente sopravvissuti all’affondamento di Atlantide.

Cocoon è anche lo strumento di riforestazione sviluppato dalla Land Life Company. Amsterdam e l’idea non è molto lontana dalla suggestione di Howard. Si tratta infatti di “bozzoli” in grado di mantenere in vita una piantina appena interrata nel più critico periodo della sua crescita: il primo anno di vita.

Cocoon è un contenitore in polpa di cellulosa riciclata, impermeabilizzata con cera naturale, della forma di uno stampo da doughnut e dalla capacità idrica di 25 litri. Al centro, nel foro della ciambella, viene interrata la piantina.

Tramite due corti tratti di spago immersi nella vasca piena d’acqua, l’acqua gocciola sulle radici della piantina, assicurandogli il fabbisogno idrico per un anno.

Lo stampo/bozzolo viene poi chiuso con un coperchio che isola la riserva d’acqua permettendo alla piantina di svettare al centro. Attorno ad essa viene posizionata un’ulteriore protezione forata che assicura la ricezione della giusta quantità di luce, ma che protegge la pianta da un irradiamento troppo forte e dall’attacco di piccoli animali.

La piantina, sul cui substrato terroso vengono sparse anche spore di un fungo simbiotico particolare del genere Mycorrizha, supportata ma non impigrita dalla riserva d’acqua costante, sviluppa un apparato radicale profondo e robusto.

Il tutto con l’utilizzo di soli 25 litri d’acqua, dal momento che la piantina non necessita di altro per il primo e più critico anno di vita.

In tutto il mondo ci sono circa 2 miliardi di ettari di terreni degradati, in gran parte per mancanza di alberi. Ed è proprio la riforestazione la soluzione più immediata per arginare questo fenomeno, che secondo le Nazioni Unite rappresenta una delle sfide più importanti da vincere.

Nelle aree dove i Cocoons sono stati utilizzati finora, come Arabia Saudita, Kenya, Messico, California, i tassi di sopravvivenza sono tra l’80% e il 95%, meglio del 10% tipico degli alberi piantati manualmente.

«Certo inizialmente i costi sono superiori a quelli di una piantumazione tradizionale – spiega Antonella Totaro di Land Life Company – dal momento che Cocoon costa circa 8 euro ed è un costo che va affrontato in anticipo, ma i risparmi nella fase successiva, sia economici che idrici, sono garantiti».

È stato utilizzato anche in Italia?

«Fra ottobre 2016 e marzo 2017 nell’ambito di un progetto di riforestazione più ampio che comprendeva anche Spagna e Grecia, è stato utilizzato in Calabria per piantumare 2400 alberi».

In quanto tempo si biodegrada il ciambellone?

«Dipende molto dall’umidità e dalla natura del terreno, ma generalmente in un anno, un anno e mezzo».

E quanto dura la riserva d’acqua da 25 litri?

«Stiamo studiando un prototipo più grande per garantire maggior durata, ma in generale dai 6 ai 12 mesi. Le condizioni ambientali esterne sono un fattore determinante».

Ci sono specie arboree che si adattano meglio a questo tipo di coltivazione? Ce ne sono invece altre che hanno mostrato scarsa adattabilità?

«Cocoon è pensato per impiantare specie arboree locali, per mantenere l’equilibrio dell’ambiente circostante. Inoltre sono da preferirsi specie che non necessitano di troppa acqua».

Quali sono invece i terreni più adatti?

«Terreni sabbiosi ed argillosi. I terreni troppo rocciosi non garantiscono invece la presenza del necessario strato di terra di cui la piantina ha bisogno».

Guarda il video dimostrativo dell’installazione di Cocoon  nella stazione di ricerca ICBA di Dubai.

Mara Magni, 4200 chilometri portando la fiaccola della sostenibilità

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Qualcuno una volta chiese a George Mallory perché volesse scalare l’Everest. Lapidariamente rispose: “Perché è lì”.

Quando ho chiesto a Mara Magni perché volesse percorrere in bicicletta 4200 chilometri per recarsi a Capo Nord, la risposta è stata più articolata, ma partiva da un assunto semplice e intriso di passione.

«Perché amo andare in bicicletta e volevo che questo viaggio avesse anche un senso più profondo, un’utilità».

Mara Magni è una dottoranda di 26 anni dell’università di Bologna. Si occupa di sostenibilità energetica ed ha scritto una tesi magistrale sulle passive houses. Dalla passione per la bici a quella per l’energia pulita il passo è stato breve: dopo quasi un anno di preparativi ha deciso di montare in sella e pedalare.

«Da un anno mi alleno facendo trail (qui potete vedere qualche sua impresa) ma volevo che il mio viaggio potesse anche portare un messaggio. Da qualche tempo collaboro con il gruppo Terracini in Transizione, un living lab della sostenibilità della facoltà di Architettura ed Ingegneria dell’università di Bologna, mi è sembrato quindi naturale che il messaggio da portare fosse legato alla sostenibilità, alla tutela ambientale».

Che percorso seguirai?

«Le tappe saranno scandite da altrettanti atenei europei, cui farò visita per fare il punto sul raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità. L’università di Bologna ha prodotto un suo paper sulle azioni da compiere per raggiungere i 17 obiettivi di sostenibilità ambientali indicati dall’Onu. Voglio capire cosa succede altrove, portare a casa suggerimenti, esperienze, consigli. La prima tappa sarà proprio Innsbruck, dove ho studiato e preparato la mia tesi. Lì è in qualche modo nato il concetto di casa passiva. Voglio vedere che passi in avanti sono stati fatti».

E quali saranno le altre tappe?

«Dopo Innsbruck sarà la volta di Monaco, poi Copenhagen, Stoccolma ed infine Turku da dove ripartirò in aereo».

Spero che le piste ciclabili europee siano più efficienti di quelle italiane.

«Lo sono per fortuna. Alcuni amici olandesi in Italia hanno avuto non poche difficoltà. Non solo per l’assenza di piste, ma anche perché quelle tracciate spesso non sono in sicurezza, attraversano arterie di scorrimento. Per il tragitto invece ci sono alcune app e tool molto utili che ti aiutano a tracciare il percorso».

Non sarai sola, però.

«No, mi accompagna il mio amico e compagno di pedalate Pietro Albamonte, ingegnere alla Ducati. Bici, tenda e fornelletto. Non ci serve altro».

Quanto contate di pedalare al giorno?

«In generale abbiamo programmato tappe da 150/200 chilometri al giorno in modo da essere entro il 26 agosto al punto di rientro. Il problema vero però potrebbero essere le condizioni meteo. Valicato il Brennero, che è la parte fisicamente più impegnativa, il resto è pianura».

Hai qualche sponsor che ti accompagna nell’impresa?

«L’università di Bologna mi ha pagato il biglietto aereo di rientro. Poi c’è Culture Velo di Cesena per i materiali tecnici. Bici a parte. Perché quella è un vecchio modello di Cannondale R800 di mio padre. L’abbiamo rimessa a posto insieme e questa sarà la sua più grande impresa».

A quando la partenza?

«Sabato 29 luglio. Intorno alle 6».

Emozionata?

«Sì, ma anche molto carica».

 

Per il Salone della CSR Amapola si fa….in quattro

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Il Salone della CSR e dell’Innovazione sociale è giunto alla quinta edizione.

L’arte della sostenibilità è il titolo scelto per l’edizione 2017. La bellezza del fare bene e il piacere di condividere passioni, valori, risultati, la sostenibilità come visione per il futuro sono le declinazioni scelte per costruire nuove prospettive in sistemi interconnessi, dove i tempi sono accelerati e solo il cambiamento è immutabile.

Il programma culturale del Salone prevede 70 appuntamenti tra eventi, seminatori, workshop e presentazioni di libri.

Amapola sarà presente al Salone in molteplici vesti e contesti.

Come agenzia video ufficiale per il CSR Manager Network impegnato con i suoi rappresentanti a comporre una tavola di discussione sul tema strategico del community and stakeholders engagement.

Insieme ad un suo cliente, AMAG, multiutility alessandrina di cui Amapola cura le relazioni media e la comunicazione. AMAG interverrà con il suo management a diverse tavole rotonde: sul valore dell’acqua come risorsa e come bene economico, sulla riduzione della povertà energetica come obiettivo per lo sviluppo sostenibile e infine sul cambiamento del welfare all’interno delle aziende.

Infine Amapola coordinerà due tavole rotonde. I partner Luca Valpreda e Sergio Vazzoler modereranno quella dedicata alla Supply chain sostenibile, in un panel che vede gli interventi di CSR manager di aziende quali Lavazza, Pirelli, Saipem, e quella sulla mobilità sostenibile, che vede seduti al tavolo i responsabili della sostenibilità di Autoguidovie, SAP e Drive Now/BMW.

Il Salone è promosso da Università Bocconi, CSR Manager Network, Unioncamere, Fondazione Global Compact Network Italia, Fondazione Sodalitas, Koinètica.

Seguite gli eventi del salone anche sui nostro account Twitter.

Rapporto Istat BES: cresce il benessere economico, ma non per tutti

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La presentazione da parte dell’Istat del rapporto sugli indicatori BES, giunto alla quinta edizione e quest’anno arricchito da una serie di ulteriori indicatori in linea con gli obiettivi di sviluppo sostenibile individuati dall’ONU nell’agenda 2030, ci consegna l’immagine di un paese che finalmente sta uscendo dalla palude alla crisi.

Nell’ottica della sostenibilità, gli scenari ambientali, sociali ed economici, rivestono una particolare importanza.

Si assiste da un lato alla crescita dei redditi e delle disuguaglianza socio economiche, soprattutto a svantaggio delle nuove generazioni. Nel 2016 continua ad aumentare il reddito disponibile delle famiglie italiane, con un incremento dell’1,6% rispetto all’anno precedente. Il reddito pro capite medio disponibile è pari a 18.191 euro. Questo generalizzato aumento della disponibilità reddituale non è però equamente distribuito, andando ad interessare il quinto più ricco della popolazione, trainato dalla decisa crescita nella fascia alta dei redditi da lavoro autonomo, che avevano registrato ampie flessioni negli anni precedenti.

Come diretta conseguenza vi è stato un aumento delle disuguaglianze stimato in una differenza dello 0,5% fra i redditi del quinto della popolazione italiana più ricca e quello del quinto meno abbiente.

Le persone in condizione di forte disagio rimangono molto numerose, nel 2016 l’incidenza della povertà assoluta, più che raddoppiata durante gli anni della grande crisi, si è mantenuta comunque su valori elevati (7,9%) aumentando ulteriormente fra i minori: sono infatti quasi 1,3 milioni i minori che versano in condizioni di forte indigenza. Gli anziani al contrario, si confermano il gruppo sociale meno fragile, toccati solo nel 3,8% dei casi da situazioni di povertà assoluta. Dati che fotografano e confermano una situazione sociale che vede genitori e nonni fornire ormai sostegno economico alle neo famiglie ed alle nuove generazioni.

Massima invece l’incidenza della povertà assoluta fra gli stranieri: quasi il 33% versa in condizioni di grave indigenza.

 

“Le rotte della sostenibilità”: a Torino il 31 gennaio testimonianze e confronto sulla CSR in Piemonte.

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Il Salone Nazionale della CSR e dell’Innovazione Sociale fa tappa a Torino. L’appuntamento è per il prossimo 31 Gennaio alle 9:30 presso la Cavallerizza Reale di Via Verdi 9, dove si terrà una mattinata di approfondimento e confronto sul tema della responsabilità sociale in Piemonte.

Tramite una carrellata di buone pratiche di competitività, sostenibilità e innovazione sociale, l’incontro rappresenta un’occasione unica per tutti coloro che intendono percorrere la strada di uno sviluppo che tenga insieme valori economici, ambientali e sociali.

Qui il programma della tappa torinese che anticipa il tema al centro dell’edizione 2018 del Salone Nazionale, in programma a Milano i prossimi 2 e 3 Ottobre: “le rotte della sostenibilità” utili a definire un progetto condiviso che aiuti le organizzazioni e le persone a viaggiare verso un futuro sostenibile.

Amapola sarà presente per raccogliere le testimonianze dei partecipanti e raccontarvi i principali spunti che emergeranno dall’incontro #CSRIS18TO.

Leggere il futuro nel caffè

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Gli equilibri climatici, in rapido cambiamento negli ultimi anni, con eventi naturali di forte intensità seguiti da siccità prolungate, stanno mettendo a serio rischio la produzione di una delle bevande più diffuse ad apprezzate al mondo: il caffè.

Secondo l’UCS – Union of Concerned Scientist, think tank statunitense indipendente che riunisce scienziati di varia specializzazione, nata nel 1969 in seno al Massachusetts Institute of Technology, tutte le maggiori nazioni fornitrici corrono rischi.

Alcuni studi stimano che la coltivazione del caffè costituisca un indotto economico che fornisce sostentamento diretto ad oltre 25 milioni di famiglie in 60 paesi nel mondo.

Arabica, Robusta, Liberica, Excelsa, ogni varietà della specie coffea si è nel corso del tempo adattata a un clima specifico. Una variazione anche solo di mezzo grado centigrado può mettere a rischio la produzione e la sussistenza stessa della pianta. Un esempio? L’epidemia di ruggine, una delle malattie che possono colpire il caffè causata da funghi patogeni che sta mietendo vittime nelle coltivazioni di montagna dell’America centrale, fino a qualche anno fa non sopravviveva al clima rigido che caratterizzava gli altipiani. L’innalzamento delle temperature ha creato un habitat in cui la ruggine sopravvive e prolifera (fonte: Macchine alimentari, dicembre 2017).

Il caffè, per la sua diffusione e per la ricorrenza che ha nella vita quotidiana delle persone, si presta a una riflessione.

L’ambiente ci lancia segnali che non possiamo ignorare. Agli scienziati sta interpretarli e denunciarli, ai governi prendere misure conseguenti a ridurne gli effetti negativi, a chi si occupa di comunicazione riuscire a tradurli in modo da generare comportamenti positivi nella popolazione.

Un certo tipo di comunicazione ambientale, catastrofista ed emozionale, ha mostrato i suoi limiti, non producendo nelle persone atteggiamenti conseguenti utili a invertire le tendenze in atto.

Ma cosa succederebbe se un certo tipo di attenzione, di consapevolezza, venisse calata nella nostra quotidianità per il tramite di un oggetto concreto, conosciuto e riconoscibile come una tazzina di caffè?

Come reagiremmo se i cambiamenti in atto bussassero alla nostra porta sotto le sembianze di un caffè meno buono, più caro o banalmente differente da quello a cui siamo abituati? Le tendenze al riscaldamento globale possono essere contenute, ma non invertite. Quindi un caffè di bassa acidità, delicato e profumato come quello ottenuto dalla varietà arabica, abituato a clima freddi e umidi, potrebbe divenire raro e costoso. Potremmo presto essere costretti a bere caffè di varietà excelsa, maggiormente abituato ai climi caldi e aridi, ma molto più amaro e forte.

La comunicazione ambientale dovrebbe svolgere questo ruolo: arrivare in maniera immediata, semplice, familiare e permetterci di capire meglio processi che avvengono a migliaia di chilometri da noi.

Parafrasando il celebre detto napoletano, la comunicazione dovrebbe arrivare come il caffè: corta, comprensibile, coinvolgente.

Una grande opportunità per Amazon: la trasparenza nella sostenibilità

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Kara Hurst, sustainability executive di Amazon

Tom Murray

Negli ultimi anni, la divisione sostenibilità di Amazon si è data parecchio da fare, impostando ambiziosi obiettivi per l’energia rinnovabile, facendo sentire la sua voce sul tema delle politiche ambientali e sfruttando le proprie competenze tecnologiche per promuovere innovazione in grado di aiutare il pianeta e aumentare i propri utili.

Recentemente ho incontrato Kara Hurst, responsabile globale per la sostenibilità in Amazon e già amministratore delegato de  The Sustainability Consortium, per parlare dell’interazione tra innovazione e obiettivi ambientali in Amazon, il lancio della Amazon Sustainability Question Bank, e l’impatto del tema sostenibilità nella scelta della località della nuova sede Amazon (HQ2).

Segue una sintesi della nostra chiacchierata.

Credo fermamente che le imprese debbano definire obiettivi grandi per aprire la strada a grande innovazione e a grandi risultati. Mi racconti qualcosa degli obiettivi grandi di Amazon, e dei vantaggi che ne stanno derivando.

Teniamo ad usare il nostro potere di acquisto per creare maggiori opportunità per il rinnovabile, ed è per questo che ci stiamo muovendo perché la nostra infrastruttura globale sia alimentata al 100% da energia rinnovabile. Poi abbiamo inaugurato il nostro maggiore parco eolico nel Texas che fornisce più di 1 milione di MWh di energia pulita alla rete pubblica e stiamo installando 50 tetti a pannelli solari per la nostra rete di fulfillment center entro il 2020.

Mi pare che tutto questo abbia un impatto circolare. Vogliamo investire nel rinnovabile come impresa, vogliamo che i nostri affiliati siano fieri di lavorare in edifici ad alimentazione solare, e vogliamo far parte della nuova economia verde e contribuire a creare nuovi posti di lavoro in un settore a forte crescita.

Quindi, tramite l’Amazon Career Choice Program, gli affiliati possono ottenere l’accreditamento come installatori fotovoltaici professionali da parte del North American Board of Certified Energy Practitioners e Amazon paga, in anticipo, il 95 percento dei costi del corso di studio e delle relative tasse.

Nonostante tutti i vostri sforzi per generare energia rinnovabile in modo autonomo, rimanete comunque un grande compratore di energia.  E le imprese come Amazon sono stakeholder di importanza critica per quanto riguarda le politiche per il settore energetico, come il Clean Power Plan Secondo voi, che impatto hanno le politiche pubbliche – sia federali, sia a livello di stato – sulla vostra capacità di raggiungere gli obiettivi per l’energia pulita?

Sosteniamo dichiaratamente politiche che consideriamo positive per noi, per i nostri clienti e per il pianeta.

Abbiamo manifestato il nostro sostegno al Clean Power Plan presentando una memoria amicus curiae assieme a Apple, Google e Microsoft. E sostenemmo l’Amministrazione precedente su politiche come l’ American Business Act on Climate Pledge.

Negli Usa, promuoviamo l’energia rinnovabile a livello di stato e locale, nonché tramite gruppi industriali come American Council on Renewable EnergyAdvance Energy Economy, e C2ES. Operiamo per mezzo di questi gruppi per far parte della voce del business sui temi sostenibilità che interessano alla nostra impresa.

Ovunque vediamo l’opportunità di aumentare l’accesso all’energia rinnovabile per i nostri clienti e le nostre sedi, ne parliamo. Negli ultimi tempi siamo stati particolarmente attivi nell’accesso all’energia solare a livello territoriale, e vado molto fiera dei risultati raggiunti dai colleghi di AWS con la partnership Dominion nel Virginia.

Parliamo di trasparenza. Grazie alla vostra piattaforma, i consumatori sono in grado di confrontare velocemente i prodotti in termini di prezzo, qualità e così via. Come farete per raggiungere un livello simile di trasparenza nelle vostre iniziative in campo sostenibilità?

Ritengo che la trasparenza rappresenti una grande opportunità per quanto riguarda la sostenibilità. Ce n’è di potenziale per parlare direttamente ai clienti dei temi che sono importanti per loro.

In Amazon, i clienti sono la nostra ossessione. Cerchiamo di agire pensando sempre al cliente e di capire le sue esigenze. Questo condiziona le informazioni che condividiamo. Per questo abbiamo lanciato la Sustainability Question Bank – per facilitare l’accesso alle informazioni ambientali e le ricerche per parole chiave o frasi. Il feedback che riceviamo dalla Question Bank ci aiuta anche a capire quali sono le questioni di sostenibilità che interessano maggiormente ai clienti.

La trasparenza è in primo piano anche in relazione alla nostra gamma di prodotti Elements, tra cui fazzolettini bagnati per bambini e vitamine. Siamo trasparenti al 100% per quanto riguarda gli ingredienti e la tracciabilità di questi prodotti. Vogliamo che i clienti abbiano la possibilità di approfondire la trasparenza in modo esauriente.

Cioè?

L’esperienza prodotto è molto diretta quando si svolge online. Non è necessario tutta la confezione “racconto” per comunicare come si usa il prodotto o per promuoverlo, e anche i dispositivi anti-furto che servono nei negozi sono superflui.

Quindi, si possono presentare vari tipi di informazioni sulla pagina delle specifiche del prodotto, e poi si tratta semplicemente di spedirlo in un contenitore. Eliminiamo tutti gli imballaggi inutili e spediamo il prodotto in una semplice scatola fatta al 100% di cartone riciclabile.

La sostenibilità è un elemento da tenere in considerazione nella scelta del sito della nuova sede Amazon, HQ2?

Credo che molte lezioni che abbiamo imparato sul fronte sostenibilità a Seattle guideranno la nostra evoluzione nella nuova sede.

Ad esempio, un grande campus urbano offre certi vantaggi, mentre il sistema di teleriscaldamento che abbiamo realizzato nel quartiere Denney di Seattle ci consente di utilizzare il calore in eccesso proveniente da un vicino centro di elaborazione dati per riscaldare i nostri uffici.

Mi piace dire che i problemi del 21mo secolo richiedono soluzioni del 21mo secolo. Amazon sfrutta le vostre competenze tecnologiche ed analitiche per ampliare il vostro impatto ambientale e sociale al di là delle vostre attività?

AWS e la nostra unità settore pubblico hanno impiegato l’analitica, l’IoT e il machine learning in tutta Amazon. Puoi esaminare alcuni progetti AWS realizzati con dataset geospaziali e ambientali.

Tendiamo naturalmente a approcciare tutte le nostre azioni per la sostenibilità con la lente della tecnologia. Prendiamo ad esempio l’imballaggio. Stiamo sviluppando del software per realizzare soluzioni di imballaggio che ci consentono di spedire i prodotti senza una sovra-scatola, in modo da poter utilizzare un unico contenitore.

Poi stiamo esaminando possibili opportunità a livello di responsabilità sociale per l’approvvigionamento e la produzione degli articoli. Vorremmo comunicare direttamente con gli operai nelle fabbriche e imparare da tali scambi per poi condividere le informazioni con i proprietari e i dirigenti delle fabbriche i quali a loro volta potranno fare dei miglioramenti.

Se dovessi guardare lo storico dei suoi ordini Amazon, quale sarebbe il prodotto che appare più di frequente nel suo carrello? (Nel mio, vestiti e scarpe da ginnastica per i figli).

Il detersivo per bucato, ho fatto un nuovo ordine solo ieri sera. Sembra che non ci basti mai a casa mia. Uso Presto, è il detersivo biologico di Amazon.

FONTE: Forbes

 


I video di Amapola raccontano il make up sostenibile di Gi Picco’s

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Gi Picco’s, azienda cosmetica B2B lombarda, ha affidato ad Amapola la realizzazione di una serie di video per la campagna di lancio dei suoi nuovi prodotti: le Special Lines e Top Powder

Le Special Lines sono la risposta di Gi Picco’s a una delle tendenze di maggiore successo della cosmetica mondiale attuale: quelle che vede le aziende impegnate a realizzare make up sempre più sostenibili, a base di ingredienti naturali, biologici e certificati.

Top Powder è invece il frutto di oltre un anno di attività di ricerca: è una polvere caratterizzata da una texture rivoluzionaria, morbida e setosa al tatto, destinata a segnare una netta discontinuità nel settore dei make up per il viso.

Per il lancio dei prodotti, avvenuta al Cosmoprof 2018 di Bologna, e riproposto con successo in altre fiere di rilevanza mondiale, Amapola ha realizzato tre video promozionali, che raccontano genesi e utilizzi dei prodotti.

Nella presentazione delle Special Lines il racconto restituisce con immediatezza la dimensione naturale da cui provengono le materie prime. Campeggiano una serie di domande rivolte al pubblico – Ready to be free? Ready to be Gentle? Ready to be True? – che intendono coinvolgere e motivare. I prodotti delle Special Lines, privi di parabeni e di materie prime di origine animale, sono infatti l’essenza della leggerezza e della naturalità.  

Top Powder viene raccontato in due video. Nel primo vengono esaltate le caratteristiche uniche del prodotto, con immagini anche del processo produttivo.

Nel secondo viene mostrata una modella in primo piano durante il make up. Occhi, guance, zigomi: Top Powder si adatta a tutti gli usi. Dal video sono state ricavate una serie di “pillole”, adattate nel formato verticale per mobile, diffuse tramite una campagna social internazionale mirata, curata dalla stessa Amapola.

Regista per tutti i video è Stefano Belviglieri, video director di Amapola.

«Il lavoro con Gi Picco’s è entusiasmante – ha commentato Luca Valpreda, fondatore e partner di Amapola – perché ci permette di entrare in contatto con un settore fra i più vivaci e stimolanti. Ci fa particolarmente piacere accompagnare l’azienda nella promozione di prodotti che hanno nell’innovazione e nella sostenibilità le loro caratteristiche principali”.

 

Scopri i servizi e gli strumenti che Amapola mette a disposizione delle aziende cosmetiche

Non c’è trucco, la cosmetica italiana cresce grazie alla sostenibilità

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La cosmetica vive uno stato di grazia. Anche negli anni più incisivi della crisi economica mondiale, ha mostrato un comportamento anticiclico continuando a crescere.

Il settore nel 2017 ha generato nel mondo oltre 45 miliardi di euro di fatturato e non accenna a rallentare la sua crescita immettendo un numero sempre maggiore di nuovi prodotti sul mercato.

In particolare si osserva una massiccia immissione sul mercato di nuove referenze “green”, non riscontrata in altri settori. Sono il vero motore trainante di tutto il comparto. Nel 2017 in Italia (fonte Cosmetica Italia) sono stati lanciati 3720 nuovi prodotti, di cui il 50% (1855) erano a base di ingredienti biologici e vegan. I nuovi prodotti immessi nel mercato nel 2012 rappresentavano il 37% del totale. Nel giro di 6 anni la cosmetica italiana ha saputo allinearsi ai trend mondiali, secondo cui un prodotto cosmetico su due è green. 

Nuovi comportamenti, nuovi linguaggi

L’attenzione dei consumatori si è spostata da elementi come il prezzo del prodotto, focalizzandosi sulla scelta degli ingredienti d’origine, sul processo industriale, sull’impatto che questo ha avuto sull’ambiente, sugli animali, sull’uomo.

Parallelamente a questa crescente attenzione da parte dei consumatori per la sostenibilità dei prodotti acquistati, si è assistito a un radicale cambio anche nel linguaggio pubblicitario che accompagna i cosmetici. Questo ha da sempre messo l’accento sulla valorizzazione della bellezza, dell’unicità. Oggi il messaggio che è più probabile leggere sull’etichetta di un prodotto di make up è l’assenza di metalli, siliconi, parabeni. Il “free of” e il “plant based” hanno prepotentemente soppiantato claim come «valorizzazione della bellezza», «funzionale», «convenienza».

Si tratta di una sfida nuova anche per i professionisti della comunicazione che devono sapere rendere con efficacia quello che non è solo un cambio di paradigma produttivo, ma una vera e propria discontinuità culturale. Se infatti la cosmetica è sempre stata vista come un bene effimero, questa sua caratteristica ha reso in effetti ancora più semplice il diffondersi di una maggiore attenzione per l’ambiente e la sostenibilità. Dal momento che il cosmetico non è un bene necessario, come consumatore, sono più spinto a ridurre il mio impatto sull’ambiente quando ne acquisto uno. Lo dimostrano le caratteristiche di prodotto che maggiormente guidano le scelte d’acquisto. Dal rapporto di Cosmetica Italia emerge infatti che fra le prime 10 caratteristiche maggiormente apprezzate dai consumatori, 4 hanno a che fare con la sostenibilità e con l’assenza di particolari ingredienti (free of).  E precisamente:

  • Essere un prodotto adeguatamente (e credibilmente) “testato”
  • Essere un prodotto che riporta la scritta “senza” oppure “non contiene” per alcuni specifici ingredienti
  • Essere un prodotto green, naturale e/o bio
  • Essere un prodotto che rispetta nella sua produzione principi etici e di protezione dell’ambiente

 

Oggi curare la comunicazione di un’azienda cosmetica significa padroneggiare tutti gli strumenti contenuti nella cassetta degli attrezzi del comunicatore. Le PR e le media relations, la gestione dei social e delle relazioni che ivi si costruiscono, la multimedialità sfruttando le risorse del video, della ADV su carta stampata e digital, le più recenti tecniche di marketing.

 

Inoltre la sostenibilità nella produzione cosmetica è una caratteristica che descrive non solo i comportamenti (i metodi produttivi) ma anche i materiali di base. Gli ingredienti scelti possono essere sostenibili. Il packaging può esserlo. La rete distributiva e la supply chain altrettanto. Persino i test condotti prima dell’immissione sul mercato sono un altro aspetto su cui la sostenibilità può essere praticata. La sostenibilità sta diventando una scelta in grado di interessare ogni aspetto del mercato cosmetico.

Il made in Italy funziona ancora

Il comparto cosmetico italiano, concentrato per lo più in Lombardia dove si produce il 59% del fatturato, è costituito da piccole e medie imprese che hanno fatto dell’alta qualità degli ingredienti, e della ricerca e sviluppo di nuove tecnologie e prodotti, i veri punti di forza della loro vertiginosa crescita. Il made in Italy fatturava nel 2017 una cifra pari a 15 miliardi di euro, un terzo del fatturato registrato a livello globale.

Dal 2008 al 2016 per le imprese di produzione di cosmetica la produttività è cresciuta di più rispetto al costo del lavoro per addetto: 10.800 euro il maggior valore aggiunto per addetto a fronte di un aumento del costo del lavoro di 7.000 euro. Lo stesso non si è verificato, ad esempio, nel manifatturiero che in termini mediani ha conseguito un aumento del costo del lavoro di 4.300 euro per addetto, a fronte di un aumento della produttività di 3.300 euro. Queste cifre confermano il grande valore del capitale umano impiegato nella cosmesi in Italia, dove forti competenze tecniche legate al mondo della chimica si integrano con la capacità di innovare continuamente (e non solo dal punto di vista tecnico e scientifico).

Un altro dato che testimonia della grande vitalità e solidità dell’industria cosmetica italiana è quello legato all’export che nel 2017 è cresciuto del 7,1% rispetto al 2016 ed è in grado di generare un valore di 4,6 miliardi di euro (Fonte: Beauty Report 2018 – Cosmetica Italia). L’export italiano viaggia verso est: fra i paesi verso cui si dirigono i maggiori flussi di prodotto, i primi 5 sono del far east. Molti dei trend provengono dalla Corea del Sud dove i consumatori, altamente e da lungo tempo istruiti sulla cura della propria pelle, hanno mantenuto la più alta spesa pro capite per la cura del viso negli ultimi quattro anni.

Un altro dato rappresentativo della capacità di penetrazione del mercato italiano nel settore globale della cosmetica, sta nella presenza delle aziende italiane nelle principali fiere internazionali. Al Make Up in New York (che si è tenuto il 12 e 13 settembre 2018) e al Make Up in Paris (previsto per il 20 e 21 giugno 2019) oltre il 10% degli espositori è costituito da imprese del Belpaese.

 

 

Parlo come mangio?

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Una riflessione su cibo, sostenibilità e comunicazione partendo dai dati del Rapporto Coop 2018

L’ultima edizione del Rapporto Coop ci restituisce un’istantanea del Paese ricchissima di dettagli, attraverso l’analisi statistica delle sue scelte di consumo, delle sue strategie di spostamento e persino attraverso la strutturazione semantica del lessico che utilizza. Ci troviamo di fronte a un’analisi così articolata da suggerirne la lettura a qualsiasi ghost writer o stratega elettorale, perché dietro ogni scelta vi è un complesso di comportamenti, motivazioni, credenze che dicono dei nostri concittadini molto di più di qualsiasi sondaggio pre-elettorale. E in questo si dimostra un documento di analisi assai prezioso per gli spunti che offre anche a chi si occupa di comunicazione.

 

Dall’attenzione all’azione: l’interesse per l’Ambiente guida le scelte

Scopriamo dalla lettura del Rapporto che l’attenzione per la conservazione e la tutela dell’ambiente è un elemento chiave per 9 italiani su 10, che si dicono convinti che una buona qualità ambientale incida ineluttabilmente sulla qualità della vita stessa. Ne conseguono, per quasi 6 italiani su 10, comportamenti coerenti e scelte d’acquisto consapevoli. Il 57% degli italiani afferma infatti di aver cambiato uno o più aspetti delle proprie scelte di consumo e abitudini per contribuire alla riduzione dell’inquinamento. È un dato che si traduce in una diversa composizione del “carrello” dei consumatori. Con queste premesse si spiegano ad esempio il grande successo del packaging green (un driver di acquisto sempre più strategico) o dei prodotti bio (ormai scelti almeno una volta a settimana da un italiano su due, +37% rispetto al 2017).

Similmente i consumi di beni durevoli – come le automobili – risentono di questa rinnovata consapevolezza. Crescono gli acquisti di auto ibride, elettriche, a GPL o metano con percentuali in doppia cifra: le immatricolazioni al 1° semestre del 2018 sono cresciute del 24% sul 2016 facendo dell’Italia il primo paese europeo per acquisti di automobili eco friendly. Contemporaneamente cresce l’utilizzo dei mezzi pubblici e delle varie forme di sharing (bike e car). È Torino la città italiana che utilizza di più l’autobus (ed è la seconda in Europa).

 

Il cibo, il ponte che collega tradizione e innovazione

Il rapporto degli italiani con il cibo è atavico, fatto di culto della tradizione e lenta (e spesso diffidente) apertura al nuovo. Fino ad oggi almeno era così. Il rapporto Coop ci parla di una popolazione che sta cambiando anche se continua a riservare al cibo un’attenzione che non ha eguali in Europa e nel mondo. L’Italia occupa la prima posizione del podio per consumi alimentari: 2500 euro spesi pro capite all’anno. Gli italiani destinano 1/5 dei consumi totali proprio al cibo (e 3 ore al giorno in media per cucinarlo).

Se da un lato assistiamo nei nostri concittadini a una sempre maggiore aderenza al modello della dieta mediterranea (con tassi di corrispondenza fino al 74%, come registrato nei colloqui con i singoli intervistati) dall’altro certe tendenze all’ “integralismo alimentare” permangono: 1 italiano su 10 è vegano o vegetariano. Ma è soprattutto nell’apertura progressiva verso nuovi stili alimentari che registriamo il cambiamento più profondo. Sono sempre di più gli italiani che affiancano approcci diversi, come il biosalutismo – lo stile alimentare in maggiore crescita – alla tradizione alimentare familiare, regionale e nazionale.

Un’attenzione sempre maggiore alla salute legata alla nutrizione, si riflette necessariamente sui volumi d‘acquisto che sfondano il tetto dei 200 milioni di euro per quei prodotti che in etichetta enfatizzano la presenza di elementi salutari. È l’anno che registra il maggior tasso di crescita dei prodotti biologici (il 4% del venduto è BIO) e delle superfici coltivate in regime organico (2 milioni di ettari sul territorio nazionale). È l’anno delle super polveri e dei super alimenti (curcuma, radice di maca, zenzero, avocado): alimenti che si stabilizzano nelle nostre dispense trainati da campagne di comunicazione mirate e pervasive, veri e propri trend.

Il cibo si conferma infatti un ambito complesso che va a ricoprire il ruolo che la moda (con il suo complesso di linguaggi e temi) rivestiva negli anni ’80. Il cibo è soggetto di fotografie, storie su Instagram, post su blog, serie tv, reality, persino lungometraggi. Per dare una dimensione del fenomeno comunicativo legato al cibo, e veicolato dai nuovi media, basti pensare che sono 180 milioni i post Instagram che presentano l’hashtag #foodporn. Il cibo ha perso quella dimensione di immediata fruibilità, di oggetto, per divenire esso stesso mezzo di una narrazione. È un modo per raccontare una storia, una cultura, una certa concezione del mondo che ci circonda. E lo è sia nell’interpretazione ancestrale dei movimenti legati a Terra Madre, sia nell’impostazione del food blogging attuale. In questo sì, è davvero un ponte fra la riscoperta della tradizione e l’affacciarsi verso nuovi melting pot alimentari.

Il cibo diviene strumento di engagement privilegiato. Mezzo con cui diffondere buone pratiche e nuove culture. L’Italia in questo senso è stata apripista. La costante riduzione dei consumi di proteine animali è iniziata in Italia ben prima che in altri stati europei. La sfida per una produzione alimentare più sostenibile, maggiormente legata al consumo di vegetali che non a quello di animali, è stata possibile in parte per la presenza di un’alternativa praticabile e diffusamente comunicata. La riscoperta di antichi legumi, ad esempio, fonti proteiche sostenibili e accessibili, è stata possibile grazie alla narrazione connaturata al cibo e alla rinnovata apertura degli italiani verso vecchie/nuove soluzioni alimentari. Il cibo è in questo senso territorio di sperimentazione di linguaggi e comportamenti nuovi.

 

Il carrello degli italiani è sempre più sostenibile

Nel 2017 le vendite di prodotti sostenibili hanno raggiunto i 3,6 miliardi di euro di fatturato, trainati da prodotti che presentano certificazioni come UTZ (caffè, tè, cacao, +22%), Fairtrade (commercio equo e solidale, +16%), EcoCert (prodotti alimentari, cosmetici, detersivi, profumi e prodotti tessili certificati biologici, +15%).

Il 1° semestre del 2018 registra da questo punto di vista un ulteriore incremento di vendite: sono 2 i miliardi di euro fatturati sino a giugno con un trend di crescita che si stima possa raggiungere i 4 miliardi entro la fine dell’anno.

Sono risultati sostenuti da una consapevolezza sempre più radicata: 8 italiani su 10 ritengono infatti importante che i comportamenti d’acquisto riflettano le proprie convinzioni etiche e sociali. Il 94% considera determinanti le informazioni contenute in etichetta: correttezza, trasparenza e sostenibilità sono driver di crescita che favoriscono le vendite. Così come un packaging leggero e non inquinante. La sostenibilità di un prodotto non è più quindi solo uno degli ingredienti, ma il sapore principale che i consumatori (con un certo potere d’acquisto) ricercano.

 

Di cosa parliamo quando parliamo di cibo?

L’Italia è il terzo mercato della ristorazione in Europa. Al cibo gli italiani dedicano tempo, energia, denaro. Attorno al cibo si riuniscono famiglie e amici. Mangiare diviene vernacolo comune. Quando parliamo di cibo, in Italia, parliamo di un fattore di socializzazione primario. È necessario chiedersi quale lingua sia necessario parlare per comunicare questo fenomeno.

Da un lato assistiamo infatti, da ormai diversi anni, a una narrazione del cibo tradizionalista, boasiana per l’attenzione al dettaglio, alla singola storia e al singolo territorio, a discapito forse del racconto del risultato presente nel piatto. Chiamiamola narrazione Slow (non ce ne voglia Slow Food).

Dall’altro invece la narrazione ultra veloce e tecnologica legata ai social e alla tv che spesso sorvola sulle storie delle persone e dei territori per concentrarsi hic et nunc su ciò che c’è nel piatto, dispiegando tutto l’arsenale possibile a suon di pixel e megabyte. Chiamiamola narrazione Fast.

Pur nutrendo una maggiore simpatia per la prima, ritengo che non siano incompatibili. Sarebbe miope arroccarsi su una posizione conservativa rinunciando ai mezzi di comunicazione attuali. Le storie dei territori, le tradizioni, le unicità legate alle persone, possono trovare spazio anche dietro un #. Certo uno spazio limitato in termini di caratteri a disposizione, ma perché rinunciarvi? Perché le imprese del food dovrebbero invece scegliere di soffermarsi sulle storie più che sui prodotti adottando uno storytelling Slow?

Perché i dati, anche e soprattutto quelli del Rapporto Coop, dimostrano che sono le storie a generare i comportamenti, che sono le storie a generare coinvolgimento e consapevolezza.

La sostenibilità guida i consumi, ormai è innegabile. Ma la sostenibilità o è un comportamento, o non è. Raccontare la persona dietro l’azione è forse ancora oggi il mezzo più efficace per guidare il cambiamento.

www.comunicare2030.com, online la piattaforma di Amapola per “far vivere la sostenibilità” in azienda

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Sostenibilità e CSR fanno crescere le imprese, lo abbiamo letto e sperimentato a più riprese.

Ma come fare per rendere concreta la sostenibilità in azienda? Come farla vivere davvero da manager, quadri, operatori e dai loro stakeholder esterni? Come evitare il rischio “supercazzola”, che quando si parla di CSR è sempre in agguato?

Per dare risposta a questa domanda abbiamo sviluppato in partnership con Achab Group una piattaforma di strumenti concreti (una vera e propria cassetta degli attrezzi) per aiutare le imprese a far vivere la sostenibilità. Si chiama #comunicare2030 ed è la nostra proposta per comunicare e valorizzare i progetti di CSR di imprese private e pubbliche e, così, coinvolgere gli interlocutori a cominciare da dipendenti e collaboratori.

#2030, infatti, è una raccolta di prodotti e servizi declinabili sia ad uso esclusivamente interno (popolazione aziendale) sia per una diffusione esterna nei confronti dei principali stakeholder dell’impresa. Gli strumenti messi a disposizione sono volti a favorire il coinvolgimento (Engage) e la diffusione e condivisione di informazioni e buone pratiche di sostenibilità (Talk&Play).

Maggiori informazioni su www.comunicare2030.com

A Ecomondo per “far vivere la sostenibilità”

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Il 6 novembre apre la 22esima edizione di Ecomondo – a Rimini Fiera fino al 9 – il più importante evento fieristico italiano (e il secondo in Europa) dedicato alle soluzioni per lo sviluppo sostenibile, alla green economy e alla “circolarità”.

“The Green Technology Expo” recita il pay-off della fiera che, partita due decenni fa con 250 espositori, è giunta ad averne oltre 1200 per un afflusso previsto di oltre 100mila persone. Numeri che fanno il pari con il valore economico di quella che si definisce “bioeconomia” stimata capace, per il nostro Paese, di un giro di affari da oltre 250miliardi di euro con un ruolo primario del comparto alimentare che genera oltre il 50% di tale valore.

Quest’anno, grazie alla partnership avviata con gli amici di Achab Group, ci saremo anche noi di Amapola. Condivideremo lo spazio espositivo di Achab – Padiglione B1, corsia 4 – e presenteremo, oltre ai servizi di comunicazione e progettazione dedicati alla sostenibilità e alla responsabilità sociale di impresa, la piattaforma #2030.

#2030 è la proposta per “far vivere la sostenibilità” che abbiamo progettato proprio con Achab, voluta per comunicare e valorizzare i progetti di CSR di imprese private e pubbliche e, così, coinvolgere i propri interlocutori a cominciare da dipendenti e collaboratori. #2030, infatti, è una raccolta di prodotti e servizi declinabili sia ad uso interno (popolazione aziendale) sia per una diffusione esterna nei confronti dei principali stakeholder dell’impresa.

Far vivere la sostenibilità, d’altro canto, è il nostro cruccio e la nostra missione.

Da un lato è la stessa Ecomondo che, da cartina di tornasole del “settore ambientale”, ci dice che quando si parla di sostenibilità si è ormai passati dalla sola “fisicità” delle soluzioni tecnologiche, all’abbracciare temi di conoscenza, competenza, inclusione, coinvolgimento, responsabilità sociale.

Dall’altro una serie di ricerche dimostrano quanto il tema della sostenibilità incontri un crescente interesse tanto nel mondo delle imprese quanto dei consumatori, ma che sconti altrettanti problemi di risultati ottenuti dai progetti di CSR messi in campo a causa, principalmente, di scarsa comunicazione, diffusione e coinvolgimento. E, come questo deficit, diventi un vero e proprio rischio per la gestione aziendale: perchè sostenibilità fa ormai rima con continuità del business.

Abbiamo dunque pensato a una serie di soluzioni capaci di “accorciare le distanze” tra aziende e interlocutori, anzi che sappiano “condurli a bordo” e renderli più consapevoli dell’importanza degli impegni individuali per cogliere le crescenti sfide collettive.

E’ solo vivendo la sostenibilità, e partecipando alla sua costruzione, che si diventa davvero consapevoli dell’importanza e della portata dei nostri comportamenti e si coglie cosa si è davvero in grado di fare, singolarmente e attraverso le organizzazioni complesse di cui siamo parte, per costruire non solo un’economia, ma anche una società sobria, sostenibile, giusta.

 

Ne parliamo a Ecomondo? 

Appuntamento a Rimini dal 6 al 9 novembre. Non mancare!

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